Giorgos Polydoros – Sul mio arresto


Quanto tempo sarebbe trascorso, un vissuto è utile, non come una condizione vittimista, ma come uno strumento di analisi e preparazione…

Dal primo momento del mio arresto fino al mio ingresso nel carcere di Corfù.

Credo che saperlo è una forza nella testa e nelle mani dei rivoluzionari, non li intimorisce, al contrario li riempie di rabbia, odio e voglia per il conflitto e l’accentuazione degli attacchi. Ad ogni modo, sarebbe ingenuo che qualcuno creda di ottenere un trattamento più benevole una volta caduto nelle mani del nemico.

All’alba di lunedì, 14 marzo 2011, scatta un assalto coordinato dall’EKAM (Unità Speciale Repressiva Antiterrorista) nell’abitazione in cui vivevo assieme ai compagni membri dell’organizzazione: Olga Ikonomidou, Christos Tsakalos, Damianos Bolano e Giorgos Nikolopoulos, in un appartamento in via Ellispondou 53, nella zona Nea Ionia di Volos. Abbattono la porta esterna e ci arrestano. Questa è stata l’ultima volta in cui ho visto i miei compagni, fino al giorno successivo, quando siamo stati condotti davanti al giudice di turno ed al magistrato. Tornando al momento del mio arresto, dopo esser entrati, due uomini della EKAM mi hanno ammanettato da dietro e mi hanno fatto scendere dalle scale dell’edificio (noi abitavamo al primo piano). All’ingresso dell’abitazione c’era un gruppo di agenti dell’antiterrorismo ad attendermi, tutti con passamontagna. Quando ho provato a resistere a farmi coprire la faccia, mi hanno messo un cappuccio con la forza. Mi hanno fatto camminare in mezzo ad una doppia fila di agenti, circa una decina di persone, che mi gridavano e picchiavano con pugni e calci, fino a che non mi hanno messo in un’auto civetta. All’inizio, il cappuccio di lana non era stato ben messo e per alcuni secondi ho potuto vedere immagini confuse della strada, dell’ingresso dell’edificio, fino a che non se ne son resi conto e me l’hanno posto in tal maniera che a fatica riuscivo a respirare e non vedevo più nulla. Sono solo riuscito a vedere che la strada davanti casi era stata chiusa con diverse auto, oltre una decina. C’era un gran numero di uomini e donne (l’ho capito dalle loro voci), ma non posso dire quanti erano. All’interno dell’auto, con me c’erano tre uomini dell’Unità Antiterrorista, che durante tutto il viaggio hanno fatto commenti sprezzanti e si son burlati di me, degli altri quattro compagni, ma anche di altre persone, alcune delle quali conosco altre no. Mi hanno picchiato 6 o 7 volte sulla testa, dove ci sono i capelli per non lasciare segni. Intanto, uno mi ha costretto a sedere con la schiena poggiata sul sedile e poi s’è seduto sopra di me, cosa che è risultata molto dolorosa perché ero ammanettato all’indietro. Per oltre due settimane le mie dita sono rimaste gonfie. Sui commenti fatti, riferirò solo quelli che considero più importanti, perché con un viaggio così lungo (circa 2 ore e mezza) stancherebbe raccontarli tutti. Per iniziare, hanno cercato di ingannarmi dicendo che stavamo andando a Salonicco (ma s’erano dimenticati di spegnere la radio che stava trasmettendo da una stazione di Lamia), che ci saremmo fermati nella penisola di Halkidiki, dove mi avrebbero offerto l’opportunità -se l’avessi voluto- di scappare “con una pallottola dietro la tua testa”. Inoltre, hanno detto che avrebbero gradito “prendermi di sorpresa”, parafrasando quel che avevamo scritto in un nostro comunicato rivendicando l’attacco esplosivo del Tribunale Amministrativo di Prima Istanza, ad Atene, nel gennaio 2011. Certo, le loro minacce erano solo verbali, perché già da una decina di giorni ci stavano osservando e seguendo, quindi avevano avuto l’occasione di metterle in pratica. Ma, come s’è dimostrato, non si sono azzardati a farlo con nessuno di noi…

Durante tutto il viaggio sono rimasto taciturno, ad eccezione di un solo momento, all’inizio, quando ho risposto ad un commento che stavano facendo quando mi videro tremare (certo, per via del freddo, perché avevo indosso solo una maglietta a maniche corte e fuori c’erano solo 3 gradi). Dissi: “non ho paura, di voi certamente no, ho solo freddo”. E’ stato un errore, un attacco di sincerità che mi s’è ritorto contro. Da quel momento, ogni 10 minuti abbassavano il finestrino dell’auto, poi lo rialzavano ed accendevano il riscaldamento. E così via. Poi si sono stancati e mi hanno solo minacciato: “già parlerai con i nostri ragazzi del commissariato, non appena arriveremo… ” e da allora non mi hanno più rivolto la parola. Una volta giunti al garage sotterraneo del Commissariato Centrale di Atene, m’hanno scaraventato fuori dall’auto e sostenendomi (i miei piedi quasi non toccavano per terra) ed ossessi mi hanno tolto con la forza le scarpe ed i pantaloni, lasciandomi in mutande. Con l’ascensore siamo saliti fino al 12° piano e lì mi hanno messo in una stanza con due scrivanie ed una bandiera con Bin Laden appesa alla parete. Mi hanno tolto le manette, il cappuccio e mi hanno costretto a stare con il volto fisso sulla parete. In quel momento sono entrati diversi tipi con i volti mascherati, gridando ed insultando, mentre mi pestavano con pugni, calci e ginocchiate. Uno di essi mi ha insultato in albanese, forse perché confusi con Damiano. Il malinteso s’è subito risolto, perché sono entrati due donne ed un uomo che mi hanno riconosciuto ed hanno detto ai colleghi “è questo, è questo”. Venne anche il loro capo (me ne son reso conto perché, durante il mio trasferimento al giudice istruttore, l’ho visto in uniforme con abbondanti insegne), l’unico a volto scoperto. Tutti si sono spostati e questi mi ha chiesto come mi chiamavo per due o tre volte. Non ricevendo alcuna risposta da parte mia, ha urlato ed ha ordinato ai suoi scagnozzi “andiamo, procedura normale”. M’hanno chiesto di porgere le mani per le impronte digitali ed, al mio rifiuto, più o meno 8 tra essi si sono avventati su di me picchiandomi e cercando di immobilizzarmi. Ho resistito, per quel che mi era possibile, allora hanno chiamato altri due o tre che erano nella corridoio. In un determinato istante sono finito a terra, bloccato alle mani ed ai piedi. Allora un grasso sbirro ha messo il suo ginocchio sulla mia gola ed un altro mi ha aperto il pugno dicendo: “con le dita rotte prenderemo più facilmente le impronte”. Per la pressione che subivo sulla gola m’è mancato il respiro. Solo allora si sono fermati, perché hanno avuto paura. M’hanno lasciato fare una paio di respiri e poi si sono abbattuti su di me con ancor più fervore: Annunciando “arriva il secondo turno” ed è così che sono riusciti a prendere le impronte. In seguito mi hanno fatto riposare e mi hanno parlato in maniera quasi amichevole, dicendo che “non sarebbe dovuto andare così” e sottolineando che “non importa come reagisci, sei nelle nostre mani e o in un modo o nell’altro otteniamo quel che vogliamo”. Il grassone che prima mi ha schiacciato la gola è entrato di nuovo nella stanza, adesso aveva con sé un lungo tubo di plastica. Ha estratto qualcosa di simile ad un bastoncino per pulire le orecchie e mi ha chiesto di dargli la saliva come campione di DAN e di farlo con le “buone”, in caso contrario ci sarebbe stato il “terzo turno”. Gli ho risposto: “andiamo per il terzo turno”, ma stavolta è stato più facile per essi, perché mi hanno immobilizzato su di una scrivania con la bocca in alto, mentre uno mi strangolava con la mano posta sulla gola, ed un altro mi tappava il naso e, quando ho aperto la bocca per prendere aria, il grassone ci ha ficcato dentro quel bastoncino. Da quel momento il loro comportamento è cambiato. M’hanno restituito i pantaloni, m’hanno fatto andare al bagno ed hanno persino offerto da mangiare e bere, ma non ho accettato. Mi hanno fatto sedere su una sedia e mi hanno ammanettato di nuovo, costringendomi a fissare una parete, stavolta con appesa una bandiera con Abdullah Öcalan. L’unico altra cosa che hanno cercato di fare prima di sbattermi in una delle loro celle è stato il tentativo di farsi dire come mi chiamo, cosa che non hanno ottenuto. Il settore delle celle dell’Unità Antiterrorista consiste in una salone, posto sullo stesso piano, con otto celle di 1.5 per 3 metri, ciascuna con una pesante porta di ferro ed una lampadina sul soffitto accesa 24 su 24. La cosa che più mi molestava in quella cella era il pensare dove e in che stato si trovassero i miei 4 compagni, perché non mi rendevo contro se si trovavano nelle celle al lato della mia. Poi, sopraggiunse la monotonia dell’isolamento, intervallata dalle trasferte al giudice istruttore ed al magistrato, sia martedì che mercoledì. Inoltre, ho avuto il permesso ad avere un colloquio di 10 minuti al giorno con i familiari, sempre con la presenza di agenti dell’antiterrorismo. Ogni 15 minuti un incaricato apriva lo spioncino della cella (dalla quale si vedeva solo il corridoio) e ci guardava. Le due prime notti ci svegliavano per spezzare i nostri nervi. Venerdì, 18 marzo, mi hanno trasferito al carcere di Corfù. Una jeep con 3 agenti della EKAM, uno dell’Unità Antiterrorista ed io, ammanettato all’indietro e costretto a fissare per terra per tutta la durata del viaggio. Quel convoglio era anche costituito da una Hyundai, sul quale sono saliti quattro uomini in borghese, ma armati con pistole semiautomatiche e che seguiva la jeep. Davanti a noi c’erano uno o due pattuglie (a seconda della provincia che attraversavamo, visto che cambiavano in ciascuna di esse) ed a volte poliziotti in moto.
Adesso, nella cella in cui siamo “accolti”, tornano alla memoria quei momenti e la mia coscienza si arma con più odio e maggior passione per la lotta, la lotta armata e la vendetta… Coglioni, torneremo ad incontrarci ed allora vedremo chi starà “sopra” all’altro. Perché la verità è che s’è persa un’importante battaglia, ma la guerra rivoluzionaria continua con tensione irriducibile e stiamo fissando di nuovo l’appuntamento con la nostra storia, la storia della O.R. Cospirazione delle Cellule di Fuoco. Abbiamo ancora molto da dire e da fare…

NE’ UN MILLIMETRO INDIETRO, 9MM NELLA TESTA DEGLI SBIRRI

Le nostre parole le pagherete in contanti…

p.s. Questo testo l’ho iniziato a scrivere quando ero ancora nel carcere di Corfù. Poi c’è stata una serie di trasferimenti e punizioni disciplinari (Corfù, Grevena, Nafplio, Halkida, Alicarnasso) dovuti al fatto che mi sono rifiutato di collaborare con gli ordini dei carcerieri di ciascuna di queste istituzioni. Nelle prime quattro (oltre quella di Alicarnasso) sono anche finito nelle celle di isolamento. Questo è il motivo per il quale completo il testo adesso, dopo circa 8 mesi. Tutto ciò invece di stancarmi mi rende più forte.

VIVA PER SEMPRE LA POSIZIONE CHE NON RETROCEDE, DENTRO E FUORI LE MURA

RISPETTO-DIGNITA’-SOLIDARIETA’

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