Il maremoto per i mapuche – La furia di Kay Kay

“Molta gente ride di queste cose, dice ‘sono storie di indios’ ma hanno una
grande verità” sottolinea Marihuan. E’ questa verità
quella che un contadino mapuche ha comprovato la notte del 27
febbraio quando, dalla collina dove si trova la sua casa, ha sentito
che Tren Tren avvertiva i suoi di un grande pericolo: Kay Kay, il
serpente signore dei mari, si stava svegliando.”

articolo di Pedro Cayuqueo
– Temuko, Wallmapu (territorio mapuche) – 07.04.10

fonte: Azkintuwe.org

Un grande cataclisma segna l’origine del mondo e marca la vita mapuche.
Il mitico racconto “
Tren
Tren e Kay Kay
” si riferisce ad una grande inondazione che colpì la terra e
che, secondo le credenze, tornerà a ripetersi se i mapuche
abbandonano la loro cultura e la particolare relazione di rispetto
verso la terra.
“Lì nel mare, nel più profondo, viveva un grande serpente che si
chiamava Kay kay, una weza newen o forza negativa, dello squilibrio e
del caos. I mari obbedivano agli ordini di un serpente ed un giorno
iniziarono a ricoprire tutta la terra. Si chiamava Tren Tren e
consigliò i mapuche di salire sulle colline quando le acque
iniziarono a crescere. Così come i mari ricoprivano la terra,
le colline iniziarono a crescere. Quando Kay Kay non ebbe più
altra acqua disponibile, la battaglia tra le due forze terminò.
Molti mapuche non riuscirono a salire sulle colline e si
trasformarono in shumpall. Alla fine si salvarono solo 4 persone, una
coppia di anziani: Kuse (anziana), Fucha (anziano), ed una coppia di
giovani: Ulcha (donna giovane) e Weche (uomo giovane). Gli anziani
trasmisero la loro saggezza ai giovani e questi a loro volta ai
figli, che popolarono la terra una volta che le acque si ritirarono e
l’equilibrio venne ristabilito”.

Il racconto varia a seconda del narratore, ma il sottofondo è lo
stesso.
“Da bambino ci viene detto questo epew (cuento), per insegnarci a non
dimenticare da dove veniamo e qual è il nostro luogo in questo
mondo. Siamo figli della terra e ad essa dobbiamo gratitudine e
rispetto”
segnala Rogelio Marihuan, mapuche del settore di Piedra Alta, nel
comune di Tirúa. Rogelio ha ascoltato il mito dalla bocca di
suo nonno e l’ha trasmesso più tardi ai suoi 3 figli piccoli.
Riconosce che ogni giorno sempre meno gente lo conosce e che
difficilmente un qualche giorno sarà insegnato nelle scuole.
“Molti ridono di queste cose. Dicono ‘sono storie di indios’, ma hanno una
grande verità”
, sottolinea Marihuan. E’ una verità che questo contadino
mapuche ha comprovato la notte del 27 febbraio, quando dalla collina
in cui si trova la sua casa sentì come Tren Tren allertasse di
nuovo i suoi di un grande pericolo: Kay Kay, il serpente signore dei
mari, si stava svegliando.
Il maremoto che ha colpito la costa del Wallmapu, per mapuche come Rogelio, non è il mero
capriccio di placche tettoniche che scorrono, da registrare in scale
Richter o Mercalli. Costituiscono piuttosto segnali o avvertimenti,
avvisi che gli equilibri tra le forze creatrici del mondo mapuche
-risultato di quella battaglia originale raccontata nel mito-
iniziano a vacillare. Per questo quella notte, mentre 3 grandi ondate
distruggevano i pochi chilometri dalla sua casa e l’isola Mocha e la
località costiera di Tirúa, Rogelio ha riunito tutta la
sua famiglia e s’è incamminato verso i settori più
alti. Non è stato l’unico. Al suo fianco, illuminati dalla
luna piena, decine di contadini e di pescatori mapuche-lafkenche,
membri della sua comunità, facevano lo stesso. Nessuno aveva
con sé beni materiali. Una volta in cima e con la silhouette
dell’isola Mocha illuminata dala luna alle loro spalle, hanno dato
il via ad una preghiera tradizionale. Al suono dei kultrun e della
pifilka, Rogelio ed i suoi hanno danzato ed hanno donato alimenti
come offerta alle ngen (forze) della terra fino a che il sole ha
illuminato il disastro da lontano. Tirúa, lo storico comune
amministrato da una serie di sindaci mapuche, era praticamente in
rovina. Responsabili del disastro erano state le tre gigantesche
ondate che, tra le 4 e le 6 della mattina di quel fatidico giorno,
hanno devastato il paese dalla foce del fiume, distruggendo
letteralmente tutto al loro passaggio, incluso l’edificio del comune,
una piazzetta cerimoniale orgoglio delle comunità della zona,
ed un settore di almeno 3-400 metri di case e locali commerciali.

Sono state decine le comunità mapuche che dopo il maremoto
hanno tenuto dei nguillatunes. Sebbene le più colpite siano
state le zone del lafkenmapu (settore costiero del País
Mapuche), in tutto il territorio si sono tenute delle cerimonie per
placare la furia di Kay Kay. “In generale, la gente mapuche della costa s’è rifugiata
spiritualmente nello stesso mare in quanto è lo stesso
ngenlafken ad esser consultato su quel che verrà. Per esempio
molta gente, una volta terminate le scosse, all’alba s’è
diretta alle colline vicine al mare o sulla stessa riva per
effettuare delle offerte e per recitare dei llellipun, per chiedere a
Mankian ed al NgenLafken, che cosa stava per accadere… sia a
livello individuale che familiare. In seguito a livello collettivo,
molte comunità o rewe, comunità aggruppate, si sono
riunite ed hanno realizzato la cerimonia del lefkontupurun, che
corrisponde alla preghiera comunitaria quando ci sono situazioni
complesse o tristi”
segnala Jaqueline Caniguan, poetessa e linguista di Puerto Saavedra.
Figlia di una nota machi del territorio lafkenche, Caniguan ha
vissuto il terremoto assieme alla sua famiglia nel settore La Caleta.
Lì, si trova la sua casa. Ai piedi del monte Wilke. A sole
poche centinaia di metri dalla spiaggia.
Paradossalmente, i danni provocati dalle tre grandi ondate a Saavedra sono stati minimi,
a differenza del maremoto del 1960 che distrusse completamente la
città-porto, costringendo la successiva ricostruzione sulle
colline. Jaqueline non vide quel che accadde allora, ma sì
Margarita, la madre scomparsa. E’ stata lei ad insegnarle che la
terra avverte sempre i suoi figli sul pericolo imminente.
“Lei
mi diceva: la natura avvisa sempre, ci sono segni che vengono
attraverso il pewma, i sogni, ed altri che uno può
identificare nella stessa natura, per esempio lo zampillo delle acque
e quel che accade con i pesci”

ci dice.
“Chi s’è ricordato della grande mortalità tra i pesci
avvenuta tempo fa a Queule?”
si domanda Jaqueline. “O
i sogni sconvolti che abbiamo avuto le settimane precedenti?… Va
bé, una buona scossa serve magari per tornare alla scienza dei
nostri popoli originari. In questi giorni abbiamo visto che manca la
luce, che i cellulari non funzionano, nulla… Allora, bisognerà
ricorrere all’uso degli aliwen per trasmettere messaggi, vedere se i
ruscelli zampillano o se i pozzi si seccano rapidamente, ascoltare di
più l’abbaiare dei cani e tutte quelle cose che vengono
definite superstizioni, ma che sappiamo che in passato
corrispondevano a serie osservazioni, effettivamente scientifiche”
sottolinea.

Per Jaqueline, il terremoto ed il successivo tsunami hanno
lasciato una grande lezione. “Ho
ascoltato quel che i vecchietti stanno dicendo nelle loro preghiere
ed una delle cose che mi ha più colpito è quando essi
dicono ‘che questo terremoto faccia tremare i nostri cuori, affinché
apprendiamo ad ascoltare con il cuore, con il pensiero, con la
testa’… Oggi, noi mapuche non sappiamo “vedere” i segnali
che si manifestano nella stessa natura. Sarà sempre così!
La terra si manifesta inviando segnali che se si sanno interpretare,
evitano che accadano catastrofi… La terra è molto saggia, se
crediamo nel concetto di una madre, allora le madri sempre avvisano i
propri figli, in modo che non soffrano. Ma in questa occasione è
avvenuto che noi figli siamo sordi ed abbiamo perso la capacità
di ‘andare più in là’, di ‘leggere la natura’. I vecchi
mapuche erano dei veri scienziati che potevano leggere con precisione
queste azioni della natura, per questo hanno ordinato il tempo ed i
suoi dettagli, stabilendo la rotondità della terra molto prima
che in Europa, hanno identificato i cicli della terra, le sue
stagioni, ecc… siamo noi, le nuove generazioni, che stiamo
rimanendo ciechi di fronte a tutto ciò”
si lamenta Caniguan.
Dopo il maremoto del 1960, il più devastante da quando ne vengono registrati nel pianeta, le comunità
non solo organizzarono nguillatunes e preghiere. Ci fu anche un
polemico sacrificio umano che molta gente oggi collega ad una
leggenda locale. Ma il sacrificio ha avuto luogo. Avvenne la sera del
22 maggio, un giorno dopo il fatidico maremoto che distrusse il porto
fluviale di Valdivia. Quella sera José, un bambino di 5 anni,
con l’autorizzazione di suo padre, venne sacrificato dalla machi
Luisa María Namuncura e venne lanciato nelle settore di
Collileufu. Alcuni dicono che venne lanciato intero, altri che lo
smembrarono. Quel che è certo è che il cadavere non
venne mai trovato. La machi, assieme a sua sorella Juana, al nonno
del minore, Juan José Namuncura Paiñao e Juan Paiñao,
che avrebbe lanciato il bambino al mare, furono in seguito arrestati
e condannati dalla giustizia cilena. La sentenza venne dettata
dall’allora giudice sostituto Ricardo Aylwin, cugino dell’ex primo
presidente della repubblica della Concertación. Il caso
assunse rapidamente un rilievo internazionale. A studiarlo intervenne
addirittura lo scomparso Instituto Indigenista Interamericano, con
sede in Messico. Intanto, la Corte Suprema de Justicia nominò
in quegli anni una commissione di antropologi, composta tra gli altri
dal saggio lituano Alejandro Lipschutz in modo che analizzassero il
fatto e redigessero una perizia.
La conclusione alla quale si giunse fu che il sacrificio del bambino obbediva ad una pratica
culturale. Assolutamente estrema, ma comunque culturale. E’ che nella
cosmovisione mapuche più è grave l’azione verso
l’essere umano, più grande dev’essere il sacrificio per
ristabilire l’equilibrio rotto tra le forze in campo. Così
scrissero i ricercatori e così venne accettato dalle autorità
dell’epoca. Per via di quella perizia, la machi fu liberata dalle
responsabilità e con lei le altre persone che avevano
partecipato al rito. Ciò nonostante trascorsero lunghi anni
nel carcere di Imperial prima di esser scarcerati. Si racconta che,
fino al giorno della sua morte, la machi non intese mai perché
la giustizia li accusasse di assassinio; ed i suoi vicini, gli
abitanti di Saavedra, di praticare la stregoneria. Jaqueline ha
conosciuto questa storia dalla bocca di sua madre. E la ricorda con
profonda tristezza.
“quel sacrificio è presente nella memoria collettiva della zona di
Budi. Venne realizzato da una machi che sognò di doverlo fare.
Molti mapuche non reagirono favorevolmente a quell’azione. Fino ad
oggi scatena polemiche. A livello personale mi provoca una gran
tristezza, perché conosco le canzoni che raccontano la storia
e sono molto tristi, perché in esse si racconta come il
piccolo che fu sacrificato pregasse di non esser ucciso. Per me è
un ricordo doloroso”
conclude.

*
Reportage originariamente pubblicato sulla rivista Punto Final /
www.puntofinal.cl

Questa voce è stata pubblicata in General e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.