Grecia – Lettera di Kostandina Karakatsani

* http://actforfreedomnow.blogspot.com/2011/03/letter-from-kkarakatsani-greece.html

trad. Cenere

Riguardo all’”Accordo”

Per evitare controversie pubbliche, potrei non replicare alle dichiarazioni di chi commenta il mio comportamento al fine di mettere insieme i pezzi della loro ottusità diffusa. Ma lo sto facendo, per essere coerente nel mio impegno verso una lotta più ampia. Non intendo passare sulle spalle degli altri per apparire, comunque ho delle cose da dire. Ma sarebbe davvero riduttivo e inoltre non aiuterebbe la situazione politica, limitarmi a ciò che diciamo e ciò che non abbiamo detto a qualcuno. Le fratture essenziali sono avvenute, dunque non esito a rompere il tabù della critica pubblica delle azioni combattenti. E ovviamente, dato che alcuni parlano più di quanto meritano, devo considerare delle questioni che altrimenti non avrei voluto discutere in un testo pubblico. Prima di tutto, chiarificherò la mia posizione, ma inoltre cerco di dare spunti di riflessione dal momento che ci troviamo in imbarazzo dinnanzi a situazioni sconosciute.

Comincerò con la questione dell’”accordo” che teoricamente io ho fatto con i miei co-accusati. Loro hanno scritto che “hanno seriamente discusso riguardo alla possibilità di un processo a porte chiuse e di come avrebbero reagito a questa possibilità”. Da parte mia, non ho mai partecipato a queste discussioni non mosse da una azione collettiva prestabilita. L’unica cosa che mi è stata detta, era una questione di pubblico, il non far sedere i poliziotti in modo che il maggior numero possibile di solidali potesse entrare in aula. Questa è stata l’unica cosa sulla quale ci eravamo accordati, tutte le altre richieste sono venute alla ribalta in seguito. Ciò significa che le loro affermazioni non erano frutto di un intendersi o quanto meno io non ho saputo una cosa simile. Ovviamente non ho espresso alcuna obiezione riguardo alle richieste e ciò che è successo il primo giorno ha avuto il mio consenso. Sicuramente per un attimo ho visto l’abbandono dell’aula come un gesto di protesta dal momento che nessuno sapeva della possibilità di un processo in absentia. Dal momento in cui ne siamo stati informati, tutto è stato rimesso di nuovo in discussione e mentre io ero scettica, ho evitato di fare mosse affrettate e dichiarazioni che non mi sarei presentata al processo, in quei frangenti davvero brevi. Dunque, non ho commesso niente, lasciando temporaneamente un distacco nel mio comportamento. E visto che io ho agito completamente autonomamente, come volevo fare, non ho comunicato i miei pensieri a nessuno. Quindi, se ho lasciato spazio a fraintendimenti, è stato un mio errore e ovviamente lo accetto. Tra la mia adesione a sottoscrivere le richieste e la mia adesione ad essere processata in absentia, c’è una gran differenza. Che mi è stato chiesto e che “certo che sarò d’accordo” e altre cose simili che sono state scritte, sono oscene bugie. Al contrario loro sanno che io non ho detto ai miei avvocati che li avrei rigettati. Ma comunque, dall’inizio di questo caso ad adesso ho agito in completa autonomia, quindi penso di non aver dato alcuna impressione ai miei co-accusati, così da far loro immaginare questi accordi, che presuppongono una corretta consultazione, l’intenzione di una lotta comune e i sentimenti tra compagni. Concetti che sicuramente non caratterizzano le nostre relazioni … ed è stato chiaro per loro, avendogli detto dall’inizio nelle celle d’attesa: “dovreste sapere che io non sento alcuna vicinanza con chiunque di voi”.

Nel frattempo, nella settimana di intermezzo fino alla prossima udienza, dovrebbe essere chiaro a chiunque il mio allontanamento da questa situazione: i miei avvocati non partecipano alle conferenze stampa, i miei genitori non firmano i comunicati degli altri genitori, io non mi adeguo ai comunicati e alle dichiarazioni degli altri. E’ inoltre ovvio che sto gestendo questo caso da sola e non collaborerò mai con qualcuno, come è più sospettoso ora, penso che comunque loro hanno cercato di trasformare il processo in un evento spettacolare e vorrei trovare un motivo del perché farlo. (Ad essere onesta non penso che tutti loro abbiano avuto le stesse intenzioni).

 

Riguardo al processo

In una precedente lettera ho già detto brevemente i motivi per i quali ho scelto di non ritirarmi dal processo. Abbiamo come primo dato, un processo in pieno allineamento con il totalitarismo di regime. Questo è tutt’altro che sorprendente, visto che esso è incluso nel contesto complessivo del “trattamento speciale” dei dissidenti. Condizioni di spostamenti, di detenzione e di causa. E noi lo sperimentiamo come arrestati, imprigionati e accusati “speciali”. Attraverso ciò, espressioni come “legittimando la pratica dei giudici” sono la definizione di un approccio superficiale. Nessuno va volontariamente in aula. Dunque quando un rivoluzionario è in un processo con caratteristiche “speciali” lui/lei “legittima” le sue pratiche, e dunque la sua esistenza? Quando ti trasferiscono con giubbotti antiproiettile e mitragliatrici puntate, tu legittimi questo processo, e perciò l’esistenza dell’unità antiterrorista? Quando ci troviamo negli uffici degli accusatori, “legittimiamo” anche loro? Quando sei un prigioniero, di nuovo contro la tua volontà, “legittimi” l’esistenza delle prigioni? E visto che ci troviamo in posti che hanno per definizione caratteristiche ostili (celle di attesa, aule, prigioni), generalmente quello che facciamo è “legittimare” il terrorismo di stato?

Alla fine, chiunque può sperimentare nel nostro tempo queste procedure, ma la questione è come ci comportiamo al loro interno. E se qualcuno ancora crede che la presenza in aula significa “legittimazione”, allora loro farebbero bene a non partecipare ad alcun procedimento per questo caso, né per altri, né alle corti d’appello. Visto che i documenti continueranno ad essere presi in custodia e generalmente le stesse condizioni non cesseranno di esistere. Noi ci saremo. Nessun altro, eccetto il tempo deciderà chi è coerente in queste scelte. Non partecipare ad un processo sminuendolo, è una rispettabile scelta di rifiuto. Non partecipare ad un processo perché hai voluto fare qualcosa e non ha funzionato e sei prigioniero del tuo stesso egoismo è il risultato di una cattiva strategia.

Quanto a me, io ci sarò non al fine di diventare spettatrice della mia condanna, soprattutto quando è un caso nel quale non accetto le accuse e in generale l’accusa verso di me. E ovviamente, ogni processo di questo tipo non può puntare dal nostro lato al confronto con lo stato, l’emergenza e la diffusione di idee sovversive. E non per disgregare l’insurrezione di ognuno, creando un campo di forza, anche se forte, inefficace.

 

Riguardo allo sciopero della fame

Presto la situazione è uscita dal dualismo della presenza o assenza in aula. Ha preso altre dimensioni, quando è stato deciso da parte di alcuni di iniziare uno sciopero della fame, al fine di ritornare in aula dopo l’accettazione delle loro richieste in merito al trattenimento delle carte di identità, che era ovviamente impossibile. Se la mobilitazione è stata decisa considerando che nessuno sarebbe andato in aula (come dicono loro), allora il processo potrebbe finire rapidamente. Lo sciopero non avrebbe il tempo di evolversi, le condanne non sarebbero emesse, lo stato ignorerebbe questa mobilitazione ed esso si defilerebbe definitivamente dal caso Halandri, senza alcun disagio. E da un altro lato siamo sparsi nelle varie prigioni con un senso di insoddisfazione nelle nostre coscienze. Con questi fatti, vale la pena chiedersi su cosa si basa l’affermazione “avremmo potuto ottenere una vittoria significativa”. Non solo non c’era possibilità di vittoria, ma secondo me, la questione era inoltre posta su una base sbagliata. La sconfitta era prevista ed ecco perché c’è stato un tentativo di evitare lo sciopero. Alla fine è cominciato una settimana dopo, per motivi egoisti, giusto perché era stato annunciato.

Infine, la mia presenza in aula ha causato un guadagno di tempo. Se quelli in sciopero della fame avessero preso i loro compiti seriamente, avrebbero potuto vedere un’opportunità per portare a termine la loro lotta. Per sfruttare la durata del processo, portando lo sciopero al punto dove la loro condizione di salute avrebbe potuto fare più pressione, e auspicabilmente all’orizzonte sarebbe apparsa una prospettiva promettente. Ma visto che hanno desistito, probabilmente non per me visto che non me ne sono fatta carico! Personalmente non ero interessata in alcun modo a partecipare a questa mossa, da quando ho visto fin dall’inizio un’esagerazione e una improduttività inadeguate, quindi non mi si può attribuire alcun ruolo di influenza verso di esso. Lo stato viene pressato da chi sciopera non da chi mangia.

E per finire con le trovate per impressionare, sia chiaro che questi individui, sebbene hanno percepito il vicolo cieco di questa opzione, hanno pensato che non potevano tirarsi indietro in modo da sembrare dei rinunciatari e così hanno trovato in me una perfetta scusa per ritirarsi. E ovviamente, quando si sono trovati dinnanzi alle loro responsabilità, al fine di non riconoscere che erano diventati prigionieri della propria cattiva gestione, si sono rivolti alla mia obsolescenza morale e politica, al fine di mantenere intatta la loro credibilità.

Inoltre, il mio comportamento era chiaro a tutti. Primo: io che ho detto chiaramente che non volevo essere processata in absentia, né ho concordato con essa, secondo, il ruolo che inoltre non ho voluto, ma si aspettava il fattore decisivo Karaktsani per prendersi la colpa, ma inoltre il restante ruolo in cerca di una graduale uscita dallo sciopero della fame. Questa è la parte che scarica su di me tutte le responsabilità nella revisione del fallimento politico di quelli in sciopero della fame. Meglio che non sia storicamente ricordato così, ma come un risultato di squilibrio politico, perché poi si arriva al punto della mercificazione dello strumento, i suoi fini e risultati individuali. Per non ricordarlo storicamente così, visto che nell’eredità del movimento resta viva la memoria vivida di Christophoros Marinos in sciopero della fame nel 1995 per la sua liberazione e dei prigionieri politici turchi che nel 2000 erano in sciopero della fame con la continua perdita di globuli bianchi, Holger Meins in sciopero della fame e ucciso dallo stato tedesco dopo l’alimentazione forzata nel 1974, ecc. Resta viva la memoria che ci ricorda che lo sciopero non è un semplice strumento indolore ma un mezzo di lotta nel quale viene compromessa la salute a la vita di chi decide di usarlo. Vivo o Morto. L’uno vincitore e in piedi o l’altro sconfitto e accasciato. Una situazione di mezzo non esiste e il no della Karakatsani non è una scusa per desistere. Quindi che si sia un po’ più modesti. Una onesta autocritica avrebbe più possibilità di guadagnarsi il rispetto, a differenza della responsabilità che teme una mossa controproducente, che getta il peso sulle mie spalle.

Io sono e resterò INCOERENTE per quelli che banalizzano le pratiche e sminuiscono le forme di lotta che sono state storicamente punti di riferimento delle lotte nei processi rivoluzionari.

FALSA per quelli che scaricano le loro responsabilità sugli altri, dimenticando ogni senso di autocritica. Io sono e sempre sarò DISTRUTTIVA per quelli che scelgono mosse che sono sul limite dell’autocommiserazione e danno motivo a soggetti inutili di parlare politicamente di me, che minano la visione rivoluzionaria, più efficientemente del dominio stesso. (in riferimento solo all’incendio della Law School). E dignitosamente, sono e sarò in futuro FURIBONDA, per quelli che adottano attitudini e comportamenti che non si associano con il fine della mia valutazione politica. Oltre queste cose, sarò sempre una traditrice, per tutto ciò che non coincide con i miei valori e le mie posizioni di lotta.

Onesta lo sarò solo con quelli che responsabilmente onorano i propri codici di valori. Il mio forte rispetto e coerenza saranno apprezzati da quelli che sentono le relazioni tra compagni come il bene più grande. Un concetto che dovrebbe essere usato come una corona sulle nostre teste, perché esso è anche l’anticipo dell’assetto post rivoluzionario.

P.S. Il motivo per il quale invio questa lettera è molto specifico. Ho voluto dire qualche parole riguardo al processo, ma soprattutto per bloccare alcuni giornalisti che hanno esagerato riguardo al mio atteggiamento, con gli ovvi fini di pubblicizzare la “frattura degli accusati”. Una frattura che c’è stata comunque, io penso solo che dovrei trattarla come una questione interna (tra quelli che siedono nello stesso posto), proteggendola da ogni tipo di nemici, visibili e invisibili, che sono lusingati da tali dichiarazioni, per non esporla davanti al cannibalismo di tutti. Come sembra, comunque, io sono stata l’unica persona che ha rispettato questo valore.

P.S.2. Nel comunicato dei miei co-accusati ho potuto vedere che con una davvero meschina pratica politica hanno cercato di mettere contro di me anche quelli che sono solidali, scrivendo che “io legittimo la decisione della corte di identificare le persone”. Ovviamente io consapevolmente scredito quelli che deliberatamente ingoiano, senza masticare, queste parole. Qualsiasi cosa io dica è per quelli che si ritrovano nella direzione della costruzione di un forte movimento rivoluzionario con principi sani che non calpesterà il rispetto, ma lo diffonderà, che non coprirà i suoi errori politici, ma imparerà da questi.

Finché queste situazioni troveranno supporto nel movimento, continueranno a destabilizzarlo, disintegrandolo dall’interno.

KOSTANDINA KARAKATSANI

Prigione femminile di Koridallos

25/2/2011

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